TRA ESSERE E SEMBRARE
Verità degli specchi o illusione, inganno, con apparenza fallace della verità? Lo specchio come buon giudice veritiero o amico devoto che si abbandona alle lusinghe di una reciproca seduzione? Controllore vigile e costante della nostra immagine (di quella che noi vogliamo dare di noi se è vero che, oggi più che mai, l’apparire è prevalente sull’essere) o semplice compiacente servitore della vanità?
Nella storia del costume occidentale lo specchio ha sempre avuto un ruolo importante, fin da quando l’abito non è più stato considerato come semplice involucro atto a coprire e riparare il corpo, ma è diventato sempre più un modo per manifestare la propria condizione sociale o “un modo si essere”.
Ne testimoniano l’uso sociale i numerosi ritrovamenti archeologici, molte rappresentazioni vascolari greche, pitture egiziane o affreschi di epoca romana. E così lungo il corso dei secoli; a parte la lunga parentesi in cui la Chiesa, volendo mortificare la carne e il corpo, indicò, ovviamente, anche lo specchio come “strumento del diavolo”, in ambiguo contrasto, peraltro, con San Paolo o con la simbologia mariana (solo per citare qualche esempio) secondo la quale, attraverso Gesù che ne era l’immagine, Dio ha voluto riflettersi nella Vergine Maria.
Come non rammentare la scena d’ambiente minuziosamente descritta da Jan Van Eych nel ritratto de “I coniugi Arnolfini”, dove il piccolo specchio circolare sistemato al centro della parete di fondo, oltre che dilatare all’infinito la prospettiva, rivela anche le parti altrimenti nascoste dei due personaggi che, per la foggia e la ricchezza degli abiti, confezionati con pregiate pellicce e sontuosi velluti, per il valore degli ornamenti e il lusso degli arredi, si compiacciono del loro status di ricchi borghesi? O come restare indifferenti davanti all’emozione che suscita il grande specchio del “Bal aux Folies Bergère” di Manet che mostra a tutto campo, riflessa nella sua scintillante superficie, in un ambiente quasi irreale e in contrasto con la figura della cameriera che, spalle allo specchio, osserva malinconicamente la scena, la chiassosa società che anima la sala di un caffè-concerto, ormai destinata al tramonto come è al tramonto il secolo che l’ha creata?
Questa breve premessa appare, se non necessaria, almeno utile per introdurre una serie di interrogativi che, di riflesso, pone la mostra “L’abito per il Corpo, il Corpo per l’Abito, Islam e Occidente a confronto”, recentemente conclusasi al Museo Stibbert di Firenze.
Quali valori condizionano gli europei riguardo alla scelta del loro abbigliamento, ovvero in quale maniera la nostra cultura di occidentali “vive il corpo”?
A differenza degli islamici che non conoscono, almeno nella loro tradizione culturale, il fenomeno della moda e quindi il continuo variare delle fogge degli abiti, gli occidentali sembrano far corrispondere il continuo rinnovarsi e il succedersi delle mode a una visione del mondo in continua evoluzione verso la “perfettibilità”, in un continuo superamento del presente, in una continua tensione verso il futuro. Ma soprattutto mostrare in modo inequivocabile ciò che si vorrebbe o si dovrebbe essere secondo le aspettative sociali (ecco dove lo specchio, come oggetto di perfetto “controllo” della propria immagine, o come giudizio di approvazione da parte degli altri – in questo caso il giudizio degli altri o l’influenza che su essi riusciamo a suscitare fungono da specchio – entra in gioco) attraverso il modo di abbigliarsi, costringendo il proprio corpo ad adattarsi ai canoni imposti al fine di costruire una “immagine esteriore”.
Il mondo islamico accetta l’essenza reale del proprio corpo e adotta perciò abiti dalle linee geometriche semplici, similari per i due sessi, che non subiscono sostanziali mutamenti nel tempo.
Nell’evoluzione dell’abbigliamento i due mondi, quello occidentale e quello islamico, hanno seguito quindi due strade diverse, anche se con reciproche influenze, essendosi le due culture intrecciate nei secoli, seppure talvolta nell’asprezza dei conflitti.
Gli oggetti in mostra sono quindi esemplari per individuare le differenze culturali e di approccio al modo di intendere l’abito.
Un esempio fra tutti, un rarissimo esemplare di busto in acciaio, del Cinquecento, vera e propria corazza detentiva, sottoveste femminile finalizzata, come tanti abiti del resto, alla creazione di una immagine corporea costretta e innaturale. E al contrario i superbi caftani di seta e oro, ornati di preziosi ricami, dai colori accesi, che avvolgono morbidamente e senza costrizioni la figura.
E dunque non ci resta che metterci davanti allo specchio sperando che sciolga per noi l’antico e mai risolto dilemma: “Insomma, l’abito fa o non fa il monaco”?.