DUE PASSI COL GENERALE
Sussultai al tocco deciso di quella mano nodosa che mi premeva la spalla con gesto delicato ma fermo, intento com'ero a districare i minuscoli intrecci della lenza arruffata; non mi ero accorto del lento avvicinarsi dei passi. Mi sedetti, confuso e intimidito, su uno scoglio, facendomi accarezzare i piedi nudi dalle fresche acque schiumose, e già egli, con le abili mani dell'uomo di mare, iniziava a completare la mia opera, lo sguardo attento e serio ma senza rimprovero.
Parlò per primo, riavvolgendo con gesti misurati la lenza scintillante intorno al sughero nero e butterato. Parlò del mare, di quel mare elettrico che si infiltrava rumoreggiando nei più nascosti segreti di quelle rocce, spaccate e levigate dai mille attacchi della risacca; e della terra, di quell'isola tanto avara che la fatica aveva da tempo rinunciato a rendere feconda compagna dell'uomo. Con amore, non con disprezzo, lo sguardo lontano quasi a volerla abbracciare tutta un'ultima volta. Non si presentò ma non era necessario: la sua figura era ben viva nella mia mente fin dai tempi della scuola, e i festeggiamenti di questo 1982, da “Giochi senza frontiere” alle rumorose visite di personaggi più o meno noti alla casa dell'Eroe non avevano certo mancato di tenere vivo il ricordo, seppure in modo spesso chiassoso ed enfatico. Pareva anzi un po' stizzito per questa pacifica invasione;non già che lo dicesse a parole ma lo si intuiva da questa sua aria assorta e il pensiero un po' lontano: forse si ricordava un'altra invasione accaduta cento anni prima, quando per la sua morte, si strinsero attorno a lui sinceri amici e una moltitudine vociante di molesti curiosi. Anche ora, mentre mi affannavo a seguirlo di roccia in roccia mentre mi indicava una piccola insenatura o un cespuglio che ostinatamente cercava di opporsi alla furia del maestrale, aveva l'orecchio teso verso il centro dell'isola da cui provenivano, frammiste a pungenti sferzate di vento, frammenti di parole e note di fanfara. Più in là, sulla crosta ondulata della collinetta, gli scolaretti saltellavano, simili a colorate caprette, agitando bandierine di carta. Vergognandomi un poco nascosi nel fondo dello zainetto, fra lenze e ami, il libretto dalla copertina tricolore che avevo pensato di leggere proprio lì,al riparo delle rocce, durante una sosta del mio breve viaggio (ma che sapevo non avrei mai aperto). Non era indifferente a queste dimostrazioni d'affetto, si leggeva nel suo volto commosso, ma forse avrebbe preferito un incontro diverso con questa Italia “non ancora fatta, un incontro meno ufficiale, per poter parlare con maggior familiarità a questi italiani d'oggi, e chiedere e sapere ed esprimere il suo pensiero, seppure con parole un po' desuete. Ma ciò non era stato possibile per le rigide regole del protocollo, e allora aveva preferito allontanarsi non visto e vagare solitario fra i lentischi fino a quando fosse tornato il silenzio, lasciando che quai signori ne rivendicassero l'appartenenza con parole rotonde e ben modulate,
Ora tutto era silenzio, una grande calma avvolgeva i graniti e una piccola lucertola stava immobile e incredula sul ramo inerte.
La cerimonia era finita e le sagome nere del ritorno si stagliavano sottili sul profilo gibboso dell'orizzonte. Il richiamo rauco del vaporetto coprì le ultime note dell'inno nazionale.
Un timido gesto e mi diressi verso la lenta processione: quando mi voltai stringeva ancora il vecchio sughero con l'amo penzolante. Poi venne inghiottito dalle grigie ombre della sera.
Sul battello i visi accaldati degli scolaretti mentre gli ultimi raggi del sole accendevano rossi bagliori sulle medagliette – ricordo.